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Autodeterminazione


  07/07/2014 10.18.03APRI IL DOCUMENTO IN FORMATO PER LA STAMPA


Il capitalismo non uscirà dalla propria crisi. Nessuna speranza per il futuro va riposta nella borghesia. La classe operaia deve contare innanzitutto sulle proprie forze.


(Contributo per l'assemblea operaia di Modena del 22 Marzo 2014)

Gli elementi del momento presente su cui occorre riflettere e discutere a fondo sono principalmente due: da un lato, le cause e la gravità della crisi del capitalismo e, dall'altro, la difficoltà che ovunque la classe operaia incontra nello scendere con forza sul terreno della lotta sia quella economica che quella politica. Sulla prima questione: noi sosteniamo con convinzione che la crisi che attanaglia il capitalismo è irreversibile. Gli argomenti che portiamo a sostegno di questa affermazione li deriviamo, tanto dalla esperienza concreta di quanto avviene ogni giorno, quanto dalla analisi del grado di sviluppo che hanno raggiunto tutte le contraddizioni che caratterizzano il modo di produzione capitalistico. Cominciamo dall’esperienza concreta, dalla realtà oggettiva, ovvero da quanto tutti noi possiamo osservare quotidianamente. Ebbene, l’esperienza concreta ci dimostra innanzitutto, e con estrema evidenza, che rappresentano un’eccezione le fabbriche che una volta chiuse siano state riaperte e gli operai che una volta messi in cassa integrazione siano rientrati stabilmente in produzione. Constatiamo poi che le fabbriche non vengono chiuse solo in Italia ma anche nei paesi con capitalismi più forti di quello italiano. Richiamiamo solamente alcuni esempi, ai quali ogni compagno che segue con un po’ di attenzione l’andamento della produzione capitalistica in tutto il mondo potrebbe facilmente aggiungerne moltissimi altri: chiude la Bridgestone di Bari in Italia ma chiude anche la Goodyear di Amiens in Francia; chi dice che la Fiat non va bene perché non mette in produzione modelli innovativi, come spiega il calo percentuale a due cifre degli utili di Volkswagen (che è anche Audi, Scania, Man, Bentley, Seat e Skoda) e come mai chiudono delle fabbriche anche Renault e Peugeot-Citroen in Francia, Opel in Germania e Ford in Belgio? Anche solamente guardando a quest’ultimo paese, il Belgio, spacciato dai media per un paese prospero e politicamente stabile anche “senza governo”, vediamo che viene inoltre pesantemente ristrutturata la Caterpillar, fabbrica-piattaforma per tutta l’Europa delle macchine da costruzione della multinazionale USA. E questo dimostra che è entrato in crisi anche il settore delle costruzioni, grandi opere e infrastrutture, uno degli estremi rifugi dei capitali in cerca di valorizzazione. Soffermiamoci ancora sul Belgio: l'Arcelor, la più potente multinazionale dell’acciaio del mondo, chiude la parte a caldo dell’acciaieria storica di Liegi (oltre all'intero impianto di Florange in Francia) e Paribas chiude 150 agenzie e manda a casa un migliaio di impiegati. Nel tanto celebrato capitalismo svedese, Eriksson e Volvo licenziano in questi giorni migliaia di dipendenti in tutto il mondo. A tutti quelli che rimproverano ai padroni di non investire in innovazione, si deve chiedere come spiegano il calo del 10% in un anno il fatturato della Siemens, punta di lancia dell’ipertecnologico capitalismo industriale tedesco. Lo ripetiamo: questi sono soltanto alcuni pochi esempi. Non dobbiamo però, evidentemente, limitarci ad elencarli; dobbiamo ricominciare a studiarli a fondo, collegarli tra di loro, analizzarli nel loro insieme, per arrivare a comporre infine il quadro generale della realtà concreta del mercato mondiale, interpretare questo quadro e ricavarne le conclusioni corrette sulla natura della crisi, sulla sua tendenza, sui suoi esiti. E le premesse per la nostra azione economica e politica. Questo, naturalmente, è un lavoro che richiede organizzazione e nello stesso tempo questo è il primo lavoro che deve svolgere un’organizzazione veramente proletaria, veramente operaia.

La realtà delle economie emergenti

La ripresa dell’accumulazione che il capitalismo ha conosciuto all’inizio del nuovo secolo è stata sostanzialmente innescata dall’industrializzazione della Cina, conseguente alla piena apertura del grande paese asiatico ai capitali internazionali. Grazie alla possibilità di sfruttare un nuovo e vasto esercito di salariati a basso costo, i capitali occidentali, in una prima fase, hanno costituito nelle “regioni economiche speciali” della Cina una gigantesca piattaforma di assemblaggio ed esportazione di beni di consumo a medio e basso contenuto tecnologico (elettronica di consumo, abbigliamento etc). In un secondo tempo, man mano che cresceva il bisogno di infrastrutture ed energia, e che si consolidava una fascia di popolazione in grado di accedere a livelli di consumo più alti, il paese asiatico è diventato anche un grande mercato di sbocco per le imprese europee, statunitensi e giapponesi che producono beni di investimento strumentali (macchinari e attrezzature) che sono stati impiegati per la produzione di beni di consumo durevoli e soprattutto per sviluppare  o modernizzare i settori dell’energia, dei trasporti, delle costruzioni e delle comunicazioni allo scopo di portarli all’altezza dello stadio di sviluppo che il paese andava raggiungendo, nonché per meccanizzare e “mineralizzare” la sua agricoltura arretrata, per “modernizzare” lo sfruttamento delle sue risorse naturali. I beni di consumo durevoli a cui hanno potuto accedere tutti quei cinesi che beneficiano dell’asservimento del loro proletariato al capitale straniero e nazionale, vengono prodotti per la stragrande maggioranza dalle imprese straniere in proprie filiali oppure in fabbriche costruite in joint-venture con partners cinesi. Lo stesso accade per una certa quota, quella a più basso contenuto tecnologico, dei beni strumentali, i beni impiegati per produrre, per costruire, per generare energia e per trasportarla ecc ecc. Date le dimensioni straordinarie di questo processo, la Cina ha dovuto importare enormi quantità di materie prime e materie energetiche innescando così un ciclo economico virtuoso in molti paesi produttori di materie primarie. L'industrializzazione della Cina, con i conseguenti fenomeni combinati di urbanizzazione, destinazione di superfici agricole a colture a fine industriale, modifiche dei consumi di settori di popolazione, ha anche comportato un aumento del fabbisogno di derrate alimentari: mais, zucchero, carne, pollami e perfino soia della quale, fino alla metà degli anni ’90, la Cina era il primo esportatore al mondo. Nel breve volgere di una decina d’anni, però, il ciclo espansivo innescato dall’inglobamento della Cina nel mercato mondiale capitalistico e da quello, più o meno contemporaneo della Russia, dell’Europa Orientale, dell’India ecc. e la rivitalizzazione, a rimorchio di questi processi, dell’economia di paesi esportatori di materie prime (Brasile, Australia, Sudafrica, Venezuela ecc), ha iniziato a mostrare i suoi limiti, limiti che sono tutti riconducibili, ancora una volta, ai meccanismi contraddittori che presiedono al funzionamento della produzione su basi capitalistiche.

Ciascun singolo capitale ha ormai bisogno solo di pochi operai e dunque la massa del plusvalore diminuisce.

E’ un dato che sta sotto gli occhi di tutti che le imprese che ancora realizzano profitti, cioè quelle che generano plusvalore, impiegano pochi operai. Anche in questo caso, solo pochi esempi. In Italia fino agli anni Novanta si producevano in media 25 milioni di tonnellate all’anno di acciaio con 55.000 addetti, mentre dall'inizio degli anni 2000, con 35.000 addetti si producono tra i 28 e i 32 milioni di tonnellate di acciaio ogni anno. La fabbrica di Marcegaglia a Vladimir è il principale impianto per l’acciaio inox in tutta la Russia con solamente 150 operai. Sempre in Russia, la Cividale spa costruisce una moderna fonderia per monoblocchi per l’oil e gas con soli 200 operai. La terza fabbrica che la CNH (Fiat Industrial) ha inaugurato due anni fa in Brasile, a Sorocaba, per produrre mietitrebbiatrici per tutta l’America Latina, non occupa più di duemila operai (i sindacati hanno denunciato la multinazionale per il fatto che il 40% dei dipendenti è assunta con contratti irregolari e salari inferiori ai minimi legali). Fiat Auto oggi impiega nei suoi stabilimenti italiani non più di 30.000 operai e con frequenti periodi di cassa integrazione, contro i quasi 200.000 degli anni ‘70, ma la capacità produttiva di questi stabilimenti è almeno doppia di quella di trenta-quaranta anni fa. Sempre restando nell’ambito dell’industria dei trasporti, vediamo che gli stabilimenti brasiliani della Fiat di Betim e Goiana hanno una capacità produttiva di 600.000 vetture all’anno con soli settemila operai. La Piaggio, che inonda l’India con quasi 300.000 Ape ogni anno, occupa nella sua fabbrica di Baramati appena 1700 lavoratori. In Cina, che per l'automobile è ancora un mercato in espansione (e comunque già in forte ridimensionamento), nessuna fabbrica d'auto impiega più di sei-settemila operai; niente a che vedere con le fabbriche dei paesi del centro capitalistico negli anni Settanta. Le filiali di latinoamericane di Scania, Volvo, Man e Iveco che detengono insieme il 90% della produzione di camion in Sudamerica, tra tutte non occupano nell’intero continente più di 20.000 operai. “Il meccanismo della produzione capitalistica fa in modo che l’aumento assoluto del capitale non sia accompagnato da un corrispondente aumento della domanda generale di lavoro”. (Marx). Porteremo alla vostra assemblea due documenti, uno sulla Cina e uno sul Brasile, che espongono nei dettagli la natura della formazione economica dei due paesi ex “emergenti”. Già da questi pochissimi dati presi a caso qua e là nell’inferno mondiale del capitale, possiamo dunque affermare che l’esperienza concreta di ogni giorno ci mostra un capitalismo che non riesce a superare la propria crisi. Ma se ci limitassimo a questo non saremmo che a metà del nostro tentativo di comprendere la fase che attraversa il capitale, non avremmo applicato che la metà del giusto metodo dell’analisi. Quello che ci conferma che da questa sua crisi il capitale non può uscire è, oltre all’esperienza concreta, l’analisi del grado di sviluppo raggiunto dalle sue specifiche, particolari, contraddizioni; analisi che va condotta con gli strumenti che storicamente la classe operaia si è data. Questa analisi ci porta intanto ad una prima importantissima conclusione: la produzione di plusvalore è andata diminuendo a un livello tale da compromettere irreparabilmente i profitti realizzabili nel ciclo industriale e dunque l’accumulazione di nuovo capitale produttivo. Nuovi e più moderni macchinari servono alle imprese per aumentare la produttività del lavoro, cioè per produrre una maggior quantità di beni nella stessa unità di tempo e con lo stesso numero di operai o, meglio ancora, con un numero di operai inferiore. L’introduzione di macchinari più moderni e sofisticati comporta ovviamente un maggior esborso di capitale e questo abbasserebbe il saggio di profitto dell’impresa che innova. Ma, producendo più beni con lo stesso numero di operai o addirittura con meno operai, ogni singolo prodotto che uscirà dalle sua fabbriche conterrà in sé meno lavoro dell'operaio. E poiché sul mercato le merci valgono mediamente per quanto lavoro umano, vivo e “morto”, racchiudono in sé, allora l’impresa che ha innovato con tecnologia più avanzata il proprio metodo di lavoro, potrà vendere ciò che produce ad un prezzo inferiore a quello delle merci dei suoi concorrenti che invece contengono in sé stesse più lavoro vivo. Quindi fintanto che le altre imprese dello stesso ramo non avranno adottato anch'esse la nuova tecnologia, quella che ha innovato venderà le proprie merci ad un prezzo assai maggiore di quanto in effetti valgono in base al lavoro umano incorporato in esse. Il suo saggio di profitto risulterà per tutto questo periodo artificialmente più alto. Finchè durerà il vantaggio competitivo datogli dalla sua superiorità tecnologica, l’impresa più “avanzata” allargherà sicuramente la scala della propria produzione, amplierà la dimensione dei propri impianti; sfornerà, insomma, più merci che potrà. Ma non appena la maggioranza delle imprese dello stesso ramo avranno adottato anch'esse gli stessi nuovi macchinari, allora il prezzo di mercato delle merci del comparto in questione tornerà a corrispondere al loro valore, stabilito dalla quantità di lavoro vivo che effettivamente contengono. Ed a questo punto il saggio di profitto si abbasserà per tutte le imprese, anche per quella che aveva introdotto per prima la più moderna tecnologia. Questo spiega tante cose: la caduta progressiva del saggio di profitto, l'allargamento continuo delle dimensioni della produzione, l'eliminazione dal mercato di quei capitalisti che non hanno o non trovano le risorse per innovare e la concentrazione della produzione nelle mani di un numero sempre più ristretto di grandi imprese, il progressivo calo, nel lungo periodo, del prezzo dei beni industriali. E rende conto anche del calo progressivo del numero degli operai in rapporto alla massa dei macchinari, degli impianti, delle materie prime e delle materie energetiche impiegate nel ciclo industriale. Ad ogni salto tecnologico che avviene nei processi produttivi corrisponde dunque una riduzione del numero degli operai messi al lavoro. Più tecnologia, più innovazione vogliono dire meno posti di lavoro. Questo è il modo in cui funziona il capitalismo: man mano che si sviluppa ha sempre meno bisogno di forza lavoro. E quando il capitale industriale raggiunge un determinato grado di sviluppo, la massa del plusvalore scende non più solamente in proporzione al capitale investito ma anche in assoluto. “Anche se vivessero d’aria e dunque non dovessero produrre assolutamente nulla per sé stessi, due operai che lavorassero 12 ore al giorno non potrebbero produrre la stessa massa di plusvalore di 24 operai che lavorassero solo 2 ore al giorno. La possibilità di compensare la diminuzione degli operai aumentando il grado dello sfruttamento ha dei limiti insuperabili”. A coloro che un giorno sì e l’altro pure invocano dai padroni più innovazione tecnologica, bisogna rispondere che il capitale muore proprio di innovazione tecnologica. Come sappiamo, la società capitalista conosce un solo modo per generare ricchezza: fabbricare beni materiali, e venderli. E' il lavoro dell'operaio che mantiene l’intera "Nazione". Il salario dell'operaio e il profitto dell'industriale sono la fonte originaria del reddito di tutti i membri della società, nessuno escluso. Ed il profitto, a sua volta, lo sappiamo bene, non è  altro che quella quota di lavoro svolto dagli operai che non viene loro pagata: il plusvalore. E’ vero che nella società capitalistica sopravvivono ancora altre forme di produzione di ricchezza, ad esempio il lavoro dell'artigiano che genera nuovo valore “sfruttando sé stesso”, ma sono del tutto quantitativamente marginali. Di fatto, solamente salari e profitti costituiscono il Reddito Nazionale e tutti gli altri soggetti della società ne ricevono, direttamente o indirettamente, una quota. In conclusione, la società capitalista può riprodursi e svilupparsi ulteriormente solamente se nel processo produttivo riesce ad estorcere dal lavoro dell'operaio plusvalore sufficiente a mantenere l'intera società e a riprodurre il processo produttivo su scala sempre maggiore, cosa che costituisce lo scopo stesso della sua esistenza. Anche le fabbriche che il capitale impianta in Cina o in India, in Brasile o in Turchia, producono ormai con una composizione organica assai prossima a quelle delle nazioni di antica industrializzazione e di conseguenza nel ciclo industriale di quei paesi emergono allo stesso grado le contraddizioni che si manifestano in quelli dell’Europa, degli USA o del Giappone. La percentuale di classe operaia sull’intera popolazione lavoratrice della Cina, ad esempio, non solo non cresce ma inizia ad arretrare senza dunque che il settore industriale riesca, nemmeno sommato a quello dei servizi o delle costruzioni, ad assorbire la forza lavoro in eccesso espulsa dalle campagne dalla penetrazione in queste dell’agricoltura mercantile. Fenomeno, quest’ultimo, che assume proporzioni altrettanto gravi, anche se su scala assoluta minore, in tutti gli altri paesi dominati man mano che vengono inglobati nel mercato capitalistico, con la distruzione dell’economia rurale parcellare e dell’artigianato. Da qui le immense baraccopoli delle periferie urbane delle città dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina, dove si ammassano milioni di senza lavoro.

Produttività e plusvalore non crescono nella stessa proporzione

Ciò che ogni operaio può facilmente constatare nella propria fabbrica è che man mano che la produzione si sviluppa attraverso continui “salti tecnologici”, giunge inevitabilmente un momento in cui il prezzo finale del bene materiale che egli fabbrica è rappresentato in misura estremamente preponderante dalle materie prime di cui è fatto, dalla quota dei macchinari e degli impianti che si logora per fabbricarlo e dall’energia impiegata nel processo lavorativo. Nello stesso tempo, in proporzione, finisce per ridursi ad una quota modestissima del valore finale del prodotto, il valore che egli, l’operaio, vi immette con il proprio lavoro. Ma noi sappiamo che è da questo valore “aggiunto” dall’operaio, da quella quota di questo lavoro che non gli viene pagata, che il capitalista industriale ricava il proprio profitto. Il resto: materie prime, energia, impianti, macchinari, rappresenta per il capitalista solamente un costo: tutti questi elementi del prodotto che i suoi operai fabbricano, egli li paga: il loro valore originario, ovvero quanto il capitalista ha speso per acquistare i mezzi di produzione, trapassa immutato nel prodotto finale, non aumenta di un centesimo nel corso del processo lavorativo. Marx ha scritto: “L’aumento della produttività del lavoro aumenta il valore del capitale perché riduce il lavoro necessario (la frazione della giornata lavorativa in cui l’operaio riproduce il proprio salario). Ossia, nella stessa proporzione in cui riduce quest’ultimo, essa crea pluslavoro (la frazione della giornata lavorativa in cui l’operaio lavora per il padrone), ossia plusvalore. L’aumento della produttività può aumentare il pluslavoro solo in quanto esso riduce il rapporto tra lavoro necessario e pluslavoro e solo nella proporzione in cui esso riduce tale rapporto”.
Prima di trarre le conclusioni, proviamo a rappresentarci la questione concretamente, con un esempio: la General Electric, che è la prima compagnia al mondo per volume di vendite (160 miliardi di dollari all’anno di fatturato), impiega meno di 300.000 dipendenti e distribuiti in ben 130 nazioni. Domandiamoci ora: quanta parte del valore, ad esempio di una turbina a gas fabbricata dalla General Electric, è costituita dal valore del salario cioè, il che è lo stesso, dal  tempo di lavoro che l’operaio impiega a riprodurre il salario? Probabilmente non più del 4-5%. Ma è da questa piccola frazione del valore del prodotto che, riducendola ulteriormente, la GE dovrebbe poter ricavare ulteriore plusvalore, cioè il profitto. Torniamo a Marx: “Quanto più grande è il plusvalore del capitale prima dell’aumento della produttività o, in altri termini, quanto più è già ridotta la frazione della giornata lavorativa che esprime il lavoro necessario, tanto più si riduce l’aumento del plusvalore che il capitale ottiene dall’aumento della produttività”. Ogni volta che attraverso una innovazione più spinta viene aumentata la produttività “ Il plusvalore aumenta, ma aumenta in proporzione sempre più piccola rispetto allo sviluppo della produttività” perché “. Quanto più è già ridotta la frazione che incide sul lavoro necessario, ovvero quanto maggiore è già il pluslavoro, tanto meno un qualsiasi aumento della produttività può ridurre sensibilmente il lavoro necessario”.
Ora, quanto sarà, nella produzione della General Electric, il rapporto tra il valore dei salari (e dunque del tempo di lavoro necessario, quello da abbreviare per ottenere pluslavoro e plusvalore) e quello di un prodotto complessivo che va dalle turbine idrauliche e a gas ai motori marini e aerei, dagli impianti di generazione e distribuzione di elettricità, alle più sofisticate apparecchiature medicali, dai pannelli solari e le turbine eoliche alle locomotive, dagli impianti per la depurazione e la distribuzione delle acque ai sistemi per l’industria mineraria? Marx conclude: L’autovalorizzazione del capitale diventa più difficile nella misura in cui esso è già valorizzato. L’aumento delle forze produttive non farebbe più alcuna differenza per il capitale e gli diventerebbe indifferente anche la stessa valorizzazione perché le sue proporzioni si sono ridotte al minimo. E così il capitale avrebbe cessato di essere capitale. Ma ciò è accaduto non perché è cresciuto il salario o perché è cresciuta la partecipazione dell’operaio al prodotto, ma perché il salario è già diminuito enormemente se lo consideriamo in rapporto al prodotto del lavoro o in rapporto alla giornata di lavoro vivo”.

Il Capitale sta cessando di essere capitale 

Dobbiamo sempre tenere presente una nozione fondamentale che ci viene dalla teoria marxista: la forma storica capitalistica “non costituisce un modo di produzione assoluto ma semplicemente storico, corrisponde ad una certa, limitata, epoca dello sviluppo delle condizioni materiali della produzione”. Anche il modo di produzione capitalistico, esattamente come tutti i modi nei quali l’umanità nel corso della sua storia ha organizzato il proprio lavoro, raggiunge quel grado di maturità che lo rende un impedimento all’ulteriore sviluppo delle forze produttive della società, ovvero raggiunge quel momento del proprio divenire nel quale deve “essere lasciato cadere” e “cede il posto ad un’altra forma storica più elevata”. Si capisce che è giunto il momento in cui una determinata forma storica della produzione viene “lasciata cadere”, quando le sue proprie contraddizioni “guadagnano in ampiezza e profondità”. E tutto sta a dimostrare che ormai le contraddizioni che caratterizzano il capitalismo sono giunte al loro massimo grado, a partire da quelle a cui abbiamo più sopra accennato. Da quanto abbiamo visto consegue che la gravissima crisi in cui si dibatte il capitale non potrà essere seguita da una nuova epoca espansiva e dunque prelude a un passaggio di immensa portata storica per tutta l’umanità. L’esito di questo passaggio epocale: il trapasso ad un forma sociale superiore, il comunismo, oppure la rovina di tutte le classi in lotta (le due ipotesi che Marx prospettava), dipenderà dalla capacità della parte più cosciente e più determinata della classe operaia ad organizzarsi e ad agire come forza rivoluzionaria. D’altra parte, sappiamo che non è neppure concepibile un’azione rivoluzionaria se non in presenza di un generale dispiegarsi di lotte economiche  di un vasto movimento delle masse che scendono sul terreno dello scontro spinte dalla necessità, non di difendere i propri livelli di vita e di consumi ma livelli minimi di esistenza se non la propria semplice sopravvivenza.

I compiti immediati della parte cosciente della classe operaia.

Veniamo così alla seconda delle due questioni fondamentali del momento, quella dell’atteggiamento tenuto dalla maggioranza della classe operaia e delle masse in generale di fronte alla crisi.  La ragione principale per la quale le lotte delle singole fabbriche che chiudono o che tagliano posti di lavoro, restano isolate le une dalle altre, va cercata nel fatto che gli stessi operai, nella stragrande maggioranza, si augurano che la propria particolare situazione possa ricomporsi affidandosi alle mediazioni, invocando il soccorso degli organi politici locali o la solidarietà dei preti, andando ai programmi televisivi ad umiliarsi e a perorare, o addirittura ricorrendo ad atti estremi individuali ed autolesionistici. Sullo striscione che apriva un recente corteo dei siderurgici belgi a Bruxelles c’era scritto: ” Siderurgia: 10.000 posti di lavoro persi e voi politici cosa fate?”Gli operai della Bridgestone di Bari dicono.”Dimostreremo alla Bridgestone che sbaglia a chiudere la fabbrica”. Gli operai della Hussqvarana di Varese leggono in un talk show televisivo un accorato appello al corridore di motocross implorandolo di fare qualcosa contro il trasferimento in Austria della loro produzione: “dopo aver dato in questa azienda cuore, testa, anima e respiro, non meritiamo questo trattamento” e “molti di noi tifano per te perché il cuore, quello vero, è italiano” scrivono. Un’operaia della Ginori intervistata dalla televisione dichiara: “Mi manca tanto l’odore dei colori…”. Gli operai dell’Irisbus chiedono nei loro volantini “un lavoro utile e dignitoso per tutti”. I lavoratori della Lucchini protestano tuffandosi in mare dal molo di Piombino. I minatori del Sulcis si tagliano le vene davanti alle telecamere o si chiudono per settimane nella miniera. I cassaintegrati dell’Eridania si denudano di fronte al municipio e via umiliandosi ed implorando. In tutte le nazioni industrializzate, la maggioranza degli operai in questo momento crede a chi dice che occorre premere sul governo di turno affinché adotti politiche finalizzate a creare lavoro, a chi dice che occorre convincere i padroni ad investire in nuova tecnologia, a innovare. In breve, la maggioranza dei lavoratori crede che la crisi possa essere risolta dalla stessa borghesia attraverso quegli stessi meccanismi che l’hanno portata alla crisi. E’ questo atteggiamento di gran parte degli operai che spiega la facilità con cui vengono costruite gabbie intorno alle singole vertenze, si impedisce che esse si saldino in un fronte comune, le si spengono per portarle ciascuna, separatamente e soprattutto in modo il più pacifico possibile, al loro esito finale. Tutto questo non deve stupirci, né indurci a trarre conclusioni affrettate, negative o, peggio, sprezzanti, sulla capacità delle masse di reagire all’oppressione che subiscono. La classe operaia e le masse in generale badano innanzitutto alla soddisfazione dei propri bisogni immediati, precisamente come ha insegnato loro con il proprio esempio la borghesia che da secoli le domina. Nella loro maggioranza, le masse non riescono ad immaginare lavoro che non sia sottoposto al capitale, che viene loro spacciato come il migliore dei rapporti di produzione possibile e perciò insuperabile, nonchè “eterno”; esposto sì a crisi cicliche ma dalle quali, prima o poi, è in grado di uscire. Non sono inclini a rischiare l'oggi, per quanto insostenibile, per il domani senza proprietà privata dei mezzi di produzione, da lungo tempo educati al lavoro come sacrificio necessario da Chiese, sindacati collusi e partiti riformisti. Marx ha scritto che gli uomini si pongono soltanto i problemi che possono risolvere; come dire che, se è vero che in mancanza di soluzioni il problema non viene neppure percepito, è vero anche che quando il problema diventa questione di sopravvivenza essi incominciano a cercarne e, se qualcuno gliele indica con forza e chiarezza, sono pronti ad adottarle senza alcuna esitazione. Lenin scriveva alla vigilia della rivoluzione del 1917: “ La borghesia si mantiene al potere non soltanto con la violenza, ma anche grazie all’incoscienza, al conformismo, alla passività ed alla disorganizzazione delle masse. La rivoluzione segna il passo, non in conseguenza di un impedimento esteriore, non in seguito a violenze della borghesia, ma a causa della fiducia incosciente delle masse…solo combattendo questa fiducia incosciente …sul terreno delle idee, con la persuasione amichevole, con indicazioni basate sull’esperienza, noi possiamo….dare impulso reale sia allo sviluppo della coscienza proletaria, sia della coscienza delle masse, sia della loro iniziativa locale, coraggiosa e decisa…

Possiamo star certi che sotto la spinta del procedere della crisi, inevitabilmente riprenderà l’azione autonoma delle masse. La crisi, infatti, quanto più si estende in ampiezza e profondità, quanto più si fa drammatica, tanto più getta piena luce sulla natura del sistema capitalista, fa cadere, uno dopo l’altro, tutti gli inganni che occultano il regime di sfruttamento su cui si basa il dominio della borghesia. Qualsiasi rimedio che la classe dominante adotta per tentare di affrontare i problemi posti dalla crisi colpisce le condizioni di vita del proletariato. Dunque sotto i colpi dell’aumento dello sfruttamento, dei licenziamenti, della disoccupazione, della perdita del posto di lavoro o dell’impossibilità a trovarne, della crescente miseria, si dissolverà ogni illusione  e questo susciterà inevitabilmente in una gran parte delle masse proletarie la volontà di lottare in prima persona in difesa delle proprie condizioni di vita. Avverrà sicuramente un risveglio delle lotte, dapprima di quelle economiche ma poi anche della lotta politica. Settori sempre più vasti del proletariato inizieranno sicuramente a mobilitarsi e a praticare azioni dirette. Questo accadrà, come sempre accaduto in passato nei momenti di grave crisi, senza che le masse abbiano ancora una prospettiva chiara e una visione complessiva della natura dello scontro di classe; ancora prima che sappiano darsi delle proprie autonome rappresentanze che corrispondano ai propri reali obiettivi di classe. Dunque ancora in modo disorganizzato. In un primo tempo, lo stiamo già vedendo nei primi episodi di resistenza, seguiranno quelli in cui hanno riposto fino ad ora le proprie aspettative. Ma forzandone ogni giorno di più le direttive, scavalcando e poi abbattendo gli steccati e le gabbie che vengono costruite intorno alle loro mobilitazioni. E presto, inevitabilmente, inizieranno a rendersi conto che le soluzioni ai loro problemi non possono in nessun modo venire da coloro a cui si sono sempre affidate e così verranno spinte, lentamente ma anche inesorabilmente, all’iniziativa immediata; in una parola, verso l’autodeterminazione. Questo processo si compie tanto più rapidamente e a fondo, quanto più riescono ad agire in esso i gruppi, i nuclei e perfino i singoli elementi più coscienti della classe operaia, stando alla testa di ogni lotta economica, di ogni lotta difensiva che i proletari intraprendono e svolgendo un costante e paziente lavoro di chiarificazione del contesto generale in cui si svolge la lotta e dei suoi fini ultimi. Per tutto un primo tempo questo sarà il principale lavoro da fare, senza il timore di essere in minoranza, anzi a partire proprio dal riconoscere di costituire per ora una esigua minoranza. “Finchè saremo minoranza svolgeremo un’opera di critica e di spiegazione degli errori…..perchè le masse possano liberarsi dei loro errori sulla base dell’esperienza……..questo sembra solamente un lavoro di propaganda. In realtà questo è, più di ogni altro, lavoro rivoluzionario pratico. (Lenin)
Ma l'azione spontanea, elementare, delle masse, le lotte isolate, per non andare  incontro alla sconfitta devono riuscire a trovare infine una direzione politica, quella che può venire solamente da una salda organizzazione veramente operaia. Ed è precisamente quello che purtroppo non c’è più da tempo: il partito operaio, l’organizzazione politica dello classe operaia che racchiude in sé l’esperienza accumulata dal proletariato in tutta la sua storia, che ha ricavato da quell’esperienza, tanto dalle vittorie parziali quanto dalle sconfitte, gli strumenti teorici ed organizzativi da utilizzare ad ogni nuovo assalto che il proletariato porta al potere della borghesia. Affinchè il proletariato non sia costretto ogni volta a ricominciare da capo, non abbia a ripetere gli stessi drammatici errori, non debba cadere nelle stesse fatali esitazioni. Questa organizzazione politica, la classe operaia non la possiede più ma si cominciano a vedere le condizioni storiche che consentono che si ricostituisca. Siamo certi che settori della classe operaia, anche a partire dall’acquisizione della consapevolezza della natura e della portata della crisi,  riacquisiranno presto l’idea della necessarietà della emancipazione politica ed economica dei lavoratori,  riappropriandosi degli strumenti teorici e pratici che il proletariato si è dato dal proprio nascere. Il compito più immediato: cominciare, attraverso il confronto continuo e la corrispondenza tra i gruppi di operai più consapevoli, a consolidare i primi elementi dell’organizzazione coscientemente proletaria, comunista, capace di riunire in un unico fronte le lotte diffuse che inevitabilmente scaturiranno dalle condizioni materiali create dalla crisi e di portarle dal piano economico a quello politico per il rovesciamento della borghesia.

Gruppo di Lavoro 21 Febbraio 1848